In occasione del suo 90° compleanno (il 24 luglio scorso) Walter Fuochi su Repubblica ha intervistato Achille Canna, ex giocatore e dirigente Virtus.
Un estratto delle sue parole.

Ho smesso di andare al palazzo la stagione del Covid, più per le gambe che faticavano a salire i tanti gradini che per la paura del virus. Pago adesso tutte le botte prese in campo da giovane, ma non posso lamentarmi, alla stazione cui sono arrivato, del mio libro della salute.
A Bologna arrivai nel '53. Allora, spingeva l'ambizione, ma ancora di più il bisogno. Cercavamo soprattutto un lavoro, e in questo la pallacanestro aiutava, eccome. Se ti notavano a casa tua, Itala era il nome della mia squadra, la speranza era quella di finire a Milano o a Bologna: oggi come allora, le due squadre più forti e le due città più attrattive. Non eravamo ancora professionisti, ma giravano i primi soldi. La Virtus mi dava quelli per mantenermi in città: l'affitto, il mangiare, il vestirsi. Poi lavoravo come elettricista nei cantieri, dalle sette alle sette, prima di allenarmi la sera, tre volte a settimana, e quella paga la mandavo a casa per intero. Fui assunto alla Minganti, che fu anche uno sponsor della Vu nera. E infine mi misi in proprio, con mio cognato Charlie Ugolini, a piazzare i flipper in molti bar di Bologna. Sempre con Charlie, Porelli ci coinvolse per entrare nella Virtus. Ho fatto il presidente, il direttore sportivo, il dirigente. Quel che serviva, il gruppo era quello.
I più forti dell'era moderna sono stati Richardson e Danilovic. Sugar ha fatto vedere, e ad alcuni pure insegnato, come si giocava nella Nba. Danilovic era unico, sposava la forza fìsica alla leggerezza del gioco. Pareva volasse. E in più aveva una fame di vittorie che non ho mai più visto a nessuno.

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