I MIEI ALLENATORI: ANDREA SASSOLI E L’ASCENSORE
“Sassoli fai la zona!". Così urlava ad ogni partita un mio vicino di posto, esasperato, chissà, dall’ennesima sconfitta casalinga di una Fortitudo che in quel 1987 stava dilapidando il tesoretto ottenuto nell’ottimo girone di ritorno e, quindi, ricascando in zona retrocessione. Andrea Sassoli, però, al netto della zona, è stato un allenatore che potrà raccontare di aver ottenuto un record forse imbattibile, nello sport attuale. Quattro anni, subentrando in prima persona dopo un duopolio con Francesco Zucchini in seguito al flop di Rudy D'Amico: una promozione, una retrocessione, una promozione, una retrocessione. E se va bene aver ottenuto due promozioni con la stessa squadra, chi potrà mai raccontare di essere retrocesso due volte senza però mai essere messo in discussione e/o sostituito? Altro basket, altri tempi.
D’altra parte, era la classica Fortitudo ascensoristica degli anni 80, quella dei fratelli Douglas e del lento erodersi del sogno di avere tanti baldi giovani su cui fondare la propria squadra: i giovani c’erano, certo, ma tenerli costava caro, carissimo, e per un Pellacani che tenevi c’era stato uno Iacopini da cedere, e per uno Zatti che non vendevi c’era un qualsiasi rinforzo che non riuscivi a portarti a casa, dato che qualsiasi sondaggio di mercato partiva con un “Ok, possiamo anche darvi… ma vorremmo in cambio…”. Era, quella di Germano Gambini, una truppa che in A2 poteva vincere facilmente, e lo fece – non senza problemi, ma chiudendo sempre bene – nel 1984 e nel 1986. Ma che in A1 aveva limiti: troppo giovani nel 1985, e paradossalmente troppo vecchi nel 1987, quando accanto al gruppo di italiani c’erano ultratrentenni, in un periodo in cui a 30 anni eri già tramontante. Con un roster dove ci sarebbe dovuto essere anche Dino Meneghin, che bidonò all’ultimo momento a trattativa ben oltre l’avanzata, le cose non andarono bene nemmeno stavolta.
Sassoli tirava dritto, sapendo che era difficile tenere in piedi un gruppo forse ormai logoro anche come rapporti personali: avrebbero litigato anche Al Bano e Romina, dopo anni di convivenze, potevano non farlo George Bucci e i fratelloni Douglas? E quando nella sua ultima annata iniziò ad essere chiaro che, appunto, sarebbe stata l’ultima annata, tante cose si sfilacciarono. Così, le sei vittorie consecutive che issarono l’allora Yoga al terzo posto vennero scialacquate in un girone di ritorno da 4-11. E da quel playout che si chiuse, come tutti ricorderemo, con Diego Armando Maradona a caricare Napoli e, quindi, a far perdere il treno della salvezza alla Effe. Chiudendo così l’epoca di Sassoli, dei Douglas, e di tante altre cose.
Prima, c’era stato l’anno in cui Andrea prese il posto di Rudy D’Amico nel 1984, dopo un breve interregno di duopolio assieme a Francesco Zucchini e la capacità di tenere a bada il folle Earl Williams ottenendo il rientro in massima serie. Poi l’anno 1984-85, retrocessione a piombo ma l’alibi dei pochi denari e dell’ottimo lavoro con le verdi leve. Poi, l’anno 1985-86, altra promozione con roster che quasi non cambiava mai. Infine, appunto, l’Icaro che provò ad avvicinarsi al sole ma ne rimase scottato. Sassoli non venne confermato, e ormai era chiaro che era ora di cambiare: pregi, difetti, ma un piccolo posto nella storia ce lo avrebbe avuto comunque.
Mi capitò di contattarlo nel 2011, lavorando per il libro “La Effe di John”: inizialmente sospettoso, si sciolse quando capì che aveva davanti un interlocutore che ricordava quei quattro anni a menadito, che sapeva citare sue interviste di 25 anni prima e che, insomma, gli chiedeva qualche ora del suo tempo con grande serietà. E lui raccontò quel periodo senza nascondere nulla.
D’altra parte, era la classica Fortitudo ascensoristica degli anni 80, quella dei fratelli Douglas e del lento erodersi del sogno di avere tanti baldi giovani su cui fondare la propria squadra: i giovani c’erano, certo, ma tenerli costava caro, carissimo, e per un Pellacani che tenevi c’era stato uno Iacopini da cedere, e per uno Zatti che non vendevi c’era un qualsiasi rinforzo che non riuscivi a portarti a casa, dato che qualsiasi sondaggio di mercato partiva con un “Ok, possiamo anche darvi… ma vorremmo in cambio…”. Era, quella di Germano Gambini, una truppa che in A2 poteva vincere facilmente, e lo fece – non senza problemi, ma chiudendo sempre bene – nel 1984 e nel 1986. Ma che in A1 aveva limiti: troppo giovani nel 1985, e paradossalmente troppo vecchi nel 1987, quando accanto al gruppo di italiani c’erano ultratrentenni, in un periodo in cui a 30 anni eri già tramontante. Con un roster dove ci sarebbe dovuto essere anche Dino Meneghin, che bidonò all’ultimo momento a trattativa ben oltre l’avanzata, le cose non andarono bene nemmeno stavolta.
Sassoli tirava dritto, sapendo che era difficile tenere in piedi un gruppo forse ormai logoro anche come rapporti personali: avrebbero litigato anche Al Bano e Romina, dopo anni di convivenze, potevano non farlo George Bucci e i fratelloni Douglas? E quando nella sua ultima annata iniziò ad essere chiaro che, appunto, sarebbe stata l’ultima annata, tante cose si sfilacciarono. Così, le sei vittorie consecutive che issarono l’allora Yoga al terzo posto vennero scialacquate in un girone di ritorno da 4-11. E da quel playout che si chiuse, come tutti ricorderemo, con Diego Armando Maradona a caricare Napoli e, quindi, a far perdere il treno della salvezza alla Effe. Chiudendo così l’epoca di Sassoli, dei Douglas, e di tante altre cose.
Prima, c’era stato l’anno in cui Andrea prese il posto di Rudy D’Amico nel 1984, dopo un breve interregno di duopolio assieme a Francesco Zucchini e la capacità di tenere a bada il folle Earl Williams ottenendo il rientro in massima serie. Poi l’anno 1984-85, retrocessione a piombo ma l’alibi dei pochi denari e dell’ottimo lavoro con le verdi leve. Poi, l’anno 1985-86, altra promozione con roster che quasi non cambiava mai. Infine, appunto, l’Icaro che provò ad avvicinarsi al sole ma ne rimase scottato. Sassoli non venne confermato, e ormai era chiaro che era ora di cambiare: pregi, difetti, ma un piccolo posto nella storia ce lo avrebbe avuto comunque.
Mi capitò di contattarlo nel 2011, lavorando per il libro “La Effe di John”: inizialmente sospettoso, si sciolse quando capì che aveva davanti un interlocutore che ricordava quei quattro anni a menadito, che sapeva citare sue interviste di 25 anni prima e che, insomma, gli chiedeva qualche ora del suo tempo con grande serietà. E lui raccontò quel periodo senza nascondere nulla.