Scoppiata fragorosamente e senza preavviso (a meno di non vedere come presagio il suo borbottio davanti ad una domanda di Geppi Cucciari, martedì sera, su Rai3) nel pomeriggio di ieri, la bomba di Belinelli che torna in Europa, in Italia, a Bologna, in Virtus, ha smosso gli animi del mondo Fortitudo forse anche più di quanto non fosse previsto. Perchè Belinelli, benchè lontano dal biancoblu ormai da 13 anni, di fatto era diventato, a modo suo, una icona di una certa way of life.

Perchè Marco era un ribaltamento degli ordini precostituiti: per crescere e vincere, stavolta, non si era dovuto fare il percorso da blu a nero, ma il contrario. Vero che nel 2003 non è che il minorenne avesse dovuto studiare tanto la sua scelta, tra la quasi inesistente Virtus di quella estate e la Fortitudo di Repesa e dell'Eurolega, però, si capirà, non era e non è stata roba da tutti. 4 anni di crescita, vittorie, esaltazioni pazzesche (Dance Now, chi ricorda?) fino all'ultima deludente annata. Dove, nel caos tecnico e societario della coppia Martinelli-Sacrati, Belinelli si sarà sentito come lo studente volenteroso che si trovava in classe non più l'insegnante fidato, ma una accozzaglia di improbabili supplenti.

A ricordare quei tempi, la promessa del 2007. Uscita forse più dalla penna di uno zelante ufficio stampa che non dalla circostanza, e forse proprio di normali frasi di circostanza si trattavano, dato che era ovvio, nel 2007, che Beli non poteva restare in Fortitudo, e chissà come, quando e in che mondo si sarebbe potuto trovare di fronte al ritorno da questa parte dell'oceano. Rilette, quelle frasi ricordano un po' quelle promesse di eterno amore che si fanno alle fidanzatine della quinta liceo. Quella con cui vivi momenti esaltanti, forse anche la tua prima volta. Ma che poi viene superata dall'avanzare della realtà, senza poi andare a rinfacciare dichiarazioni più ormonali che non mentali.

D'altra parte anche Lauretta nostra, parlando di un Marco che se ne andava, raccontava di un ti prego aspettami amore mio, ma illuderti non so. E' che Belinelli, in questi 13 anni, era diventato il simbolo del virtussino che rosicava, ben diverso, appunto, da quanto raccontato dai luoghi comuni cittadini. Quello che in NBA raccoglieva punti, minuti, trofei, ma che a Bologna divideva le fazioni. Senza entrare nelle boutade di libri bianconeri o di cartonati - già raccontati qui altrove - basterebbe ricordare come fu divisiva la sua vittoria nel 2014, tra chi faceva presente che non era poi stato lui, il leader di quegli Spurs, e chi dall'altra parte batteva la stecca replicando allora togliete lo scudetto ai vostri Crippa e soci, utili ma riserve. Insomma: per 13 anni Belinelli era stato sì attaccato dal popolo bianconero, ma anche fortemente difeso dal popolo biancoblu.

Ora tutto è cambiato, e come ci sta che il giocatore possa pensare che, almeno in città, alternative oggi non ne aveva, ci sta anche un po' di malinconia da chi lo aveva erto a paladino di una certa ribellione in questo decennio. Ecco, fosse andato a Pesaro dal suo insegnante Repesa, o nell'inevitabile Milano, non sarebbe stata la stessa cosa. Ma così, è normale che il ribaltamento del rosicare sia ovvio, così come lo scegliere, adesso, tra Virtus e Fortitudo.


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