All’inizio, era quasi pittoresco, con la sua pronuncia inglese maccheronica che portava a facili imitazioni (“Vi pleid veri vel”) o a curiose incomprensioni. Come quando, in allenamento, per chiedere il perché di un errore a Van Den Spiegel si mise a gridare “Tomas, vai? Vai?”. E il belga, ben più dentro nell’italico idioma, a chiedere dove sarebbe dovuto andare. O quando ero ad un passo da lui, alla sua seconda trasferta in quel di Treviso (entrando senza accredito ma fingendomi il figlio di Walter Fuochi), quando sbroccò dopo una fischiata dubbia e servì Pozzecco (!) a tenerlo buono. Poi, Jasmin Repesa è diventato il simbolo di una certa Fortitudo, basti pensare che, cifre alla mano, è l’allenatore più vincente della storia biancoblu. Ma anche il più perdente: tre finali in campionato e una finale di Eurolega, oltre se vogliamo al non essere mai arrivato nemmeno da lontano a vedere la Coppa Italia.

La differenza la fece il fatto che, con lui, la pazienza di superare una sconfitta c’è sempre stata, grazie alla consapevolezza che si fosse iniziato un percorso (la cosiddetta “Fortitudo University”) e che, chissà, Seragnoli si fosse un po’ stancato di dover ricominciare daccapo ogni volta. Eppure, nella primavera 2003, Repesa poteva essere già ai saluti. Pur essendo stato accolto con gioia da una certa stampa che forse stappò quello buono all’addio del predecessore (curioso il titolo di un quotidiano, “Finalmente la mano di Repesa!”: alla prima vittoria, in casa, contro una malandata Viola, che forse sarebbe stata sconfitta anche con me in panchina, o forse direttamente in campo. Da lì, la Mano di Repesa che sarebbe diventata un topos letterario, pari forse solo a quella della Famiglia Addams e di Gianni Morandi), in campionato quella Effe mantenne un rendimento scarso, rispetto agli anni precedenti. 13-11 il record, uscendo quasi sempre sconfitto in trasferta, Repesa gongolò prima grazie ai tiri ignoranti in gara3 dei quarti a Cantù, e poi quando Pozzecco (tu quoque) ribaltò gara5 a Roma dal famoso 8-31 di parziale. Nemmeno quella Effe vinse il campionato ma, facendo 1-3 contro Treviso, stavolta la gente era tutta con lui. Anzi, non solo la gente, anche la dirigenza: una finale persa non venne vista come uno strazio, ma come una gran conquista.

Fondandosi su squadre giovani e rampanti, lanciando Belinelli e Mancinelli così come Lorbek e Vujanic, e soprattutto con il tempo di lavorarci su, Repesa si conquistò un credito che bypassava vittorie e sconfitte, anche se di certo se ne vincevano molte più di quante non se ne perdessero. Ma, stavolta, si focalizzava più sulle semifinali vinte che non sulle finali perse: di certo, chi poteva essere la squadra ad arrivare in finale di Eurolega proprio l’anno in cui, in casa del Maccabi, forse nemmeno il Dream Team del 1992 avrebbe fatto gol, e infatti ne uscì con una randellata epica? Chi poteva arrivare a perdere un’altra finale scudetto, ora contro Siena, senza però uscirne declassato nell’immaginario collettivo?

E allora ecco l’occasione giusta, in una stagione comunque non facile, con tanto di siluro al Poz dopo il famoso timeout e dopo il ratto della lavagnetta ad Avellino. E, quando il Serpentaro infilò quel canestro, Jasmin Repesa in sala stampa avrebbe potuto tranquillamente dire che quella roba che c’è in centro a Bologna, quelle strane torri sbilenche, non gli piaceva: qualcuno sarebbe andato di corsa a stagliuzzarle per portargliele, come la testa del Battista, in omaggio.

Divoratore delle pur capienti cucine del ristorante di Ugo, Repesa riuscì nell’impresa di fare una stagione post-scudetto sicuramente più dignitosa di quella del 2000-01: facile, certo, senza avere accanto la Virtus del Grande Slam, ma nemmeno così scontato, con una squadra ricostruita quasi da capo e con l’arrivo di stranieri come Garris e Green che parevano più gregari da metà classifica che non giocatori di altissimo livello. Anche nel 2006 ci fu lo stop in finale, sempre contro Treviso, e qui anche la fine della sua avventura in Fortitudo. Un po’ la sua voglia di cambiare aria, un po’ soprattutto il caos societario che ben ricordiamo, perché forse, chissà, a condizioni immutate nessuno certo avrebbe avuto la voglia di dargli l’arrivederci e grazie.

Già incoronato Re Pesa al suo primo ritorno a Bologna da ex, Jasmin è stato adorato in Fortitudo molto più di quanto non sia stato apprezzato nelle successive reincarnazioni italiane, e da tanti anni, in momenti di dubbi su chi mettere in panca, il suo nome ogni tanto salta fuori, non ultimo quale settimana fa. E, votato miglior allenatore di sempre da un recente sondaggio di tifosi (d’altronde facendo il 90% di vittorie in casa ci sta essere ricordati alla stragrande), lui può dire di aver fatto la storia della Effe. E anche la storia delle mie paure: dopo avergli posto una domanda su come Bologna a Biella avesse un record negativo, lui ancora poco adatto all’italiano rispose citando il Black cat, la cabala contraria. Da lì, un giornalista molto più quotato di me ed esperto di imitazioni il giorno dopo mi chiamò, riproducendo la voce di Repesa e minacciandomi di cacciata dalla sala stampa in quanto iettatore. Certo, ma quando poi il telefono passò al vero Repesa che era stato al gioco, la vita giornalaia mi passò davanti.

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