Paladozza, un qualsiasi giorno dell’inverno 1977-78.
“Ciao bambino, come ti chiami?”
“Enrico”
“Come mai vuoi il mio autografo?”
“Perché tu sei il mio giocatore preferito”
“Io? E come mai?”
“Perché ti chiami Romeo, come il bagno dove vado al mare a luglio, a Cesenatico. O come il gatto negli Aristogatti. A me piacciono molto i gatti, ma i miei genitori in casa non ne vogliono”
“Come ci sei venuto qua a vedermi giocare?”
“Il mio papà ogni sabato va a vedere le partite del Fernet Tonic, e quando se lo ricorda porta anche me”
“Ti piace il basket?”
“Molto. Mi piace questo palazzo dello sport, mi piace l’odore della gomma, l’omino che grida gelati, il luccicare del parquet”
“Ti piacerebbe giocare?”
“Molto, ma secondo me non diventerò molto alto. Mio papà non è alto nemmeno come il play della Virtus, Caglieris, che è il giocatore più basso che conosco”
“Puoi fare altre cose”
“Mi piacerebbe scrivere di basket, chissà”
“Chissà. Magari quando smetterò di giocare verrò ad allenare a Bologna, e tu scriverai delle cose che farò”
“Magari, sempre qua al Paladozza?”
“Eh non lo so, non ne sono sicuro, forse no… però ci rivedremo, ok?”
“Ok, promesso”

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